ATTIVITA’ FISICA E DCA: a quali segnali porre attenzione ?

A cura di: Dott.ssa Rebecca Rossi – Psicologa clinica

I fattori che possono intervenire nella relazione tra i disturbi alimentari e l’attività sportiva possono essere chiamati mediatori. In psicologia, per mediatori, si intendono tutti quei fattori che intervengono nei processi psicologici spesso con una relazione di causa-effetto.

Alcuni fattori predisponenti per lo sviluppo di un disturbo alimentare, anche per i soggetti che non sono atleti, possono essere: il sesso femminile; fattori di natura scatenante (ad esempio commenti negativi su peso e forma del corpo) e di mantenimento (come ricevere feedback positivi sul dimagrimento o conseguenze positive a condotte restrittive come il digiuno).

Altri mediatori, che intervengono nella relazione tra la pratica sportiva e l’insorgenza di disturbi alimentari, sono invece fattori specifici legati allo sport, come: la tipologia di sport praticato, il livello di competizione in cui è coinvolto l’atleta e le sue caratteristiche di personalità.

E’ bene sottolineare come la pubertà e l’adolescenza rappresentano un fattore di rischio aggiuntivo poiché il corpo può svilupparsi in modo non conforme alla scelta della disciplina sportiva, in particolare se la scelta e la pratica sportiva sono iniziate molto precocemente: le atlete adolescenti possono temere i cambiamenti corporei rispetto alle dimensioni, alle proporzioni e all’aumento di peso e prevenire/impedire il cambiamento adottando comportamenti alimentari patologici.

Di seguito vengono dunque presi in considerazione i seguenti mediatori:

  1. SESSO FEMMINILE
  2. TIPOLOGIA DI SPORT E LIVELLO DI COMPETIZIONE
  3. CARATTERISTICHE DI PERSONALITA’

SESSO FEMMINILE

Per le atlete di sesso femminile è riconosciuto un rischio potenziale di sviluppare un disturbo alimentare nel 18-20% dei casi, contro il 5-9% dei controlli.

Gli atleti maschi presentano invece una minore prevalenza di comportamenti alimentari disturbati o di disturbi alimentari rispetto alle femmine, ma comunque maggiore rispetto ai non atleti.

Nello specifico, le atlete, oltre ai disturbi dell’alimentazione di gravità clinica come l’anoressia nervosa, la bulimia nervosa e gli altri disturbi dell’alimentazione, possono presentare problemi alimentari subclinici, parziali o specifici come l’anoressia atletica (riguarda anche gli atleti di sesso maschile, ed è intesa come la paura di aumentare di peso o di diventare grassi anche se si è sottopeso, perdita di peso di almeno il 5% del peso corporeo, riduzione dell’introito calorico totale, pratica di esercizio fisico eccessivo e compulsivo) e la triade dell’atleta (ovvero una condizione in cui coesistono amenorrea oppure oligomenorrea, bassa disponibilità energetica dovuta a restrizioni alimentari e allenamenti prolungati, osteoporosi e osteopenia che portano a lesioni e fratture).

  • TIPOLOGIA DI SPORT

L’attività fisico-sportiva maggiormente associata all’insorgenza di disturbi dell’alimentazione è quella dei cosiddetti “lean sport”, nei quali è richiesta una determinata classe di peso o in cui vi è la credenza che un basso peso e un corpo magro possano conferire un vantaggio competitivo, su base biomeccanica o relativa al giudizio sull’aspetto fisico.

Nel 2017 l’American College of Sports Medicine evidenziava le discipline sportive “a rischio”, in particolare potenzialmente rischiose per la triade femminile dell’atleta

Queste discipline a rischio riguardano sia gli sport in cui è valutata la prestazione individuale (per es. danza, pattinaggio artistico, ginnastica artistica), quelli di resistenza che favoriscono partecipanti con un basso peso corporeo (per es. corsa di lunga distanza, ciclismo, sci di fondo), quelli in cui l’abbigliamento per la competizione rivela la forma del corpo (per es. pallavolo, nuoto, tuffi, corsa), quelli che usano le categorie di peso per la partecipazione (per es. corsa cavalli, arti marziali, lotta, pugilato), quelli in cui la forma corporea pre-pubere favorisce il successo (per es. pattinaggio artistico, ginnastica artistica, tuffi) e, infine, i cosiddetti “lean sport”.

Infatti, gli sport possono essere suddivisi in due categorie. Nel 2005 Tortsveit e Sundgot-Borgen hanno proposto una distinzione tra sport “leanness” e “non leanness”, sulla base dell’essenzialità o meno del requisito della magrezza ai fini del successo sportivo.

All’interno categoria dei “lean sports” si può effettuare un’ulteriore suddivisione in base alle modalità con cui vengono assegnati punteggi e posizioni in classifica. Ciò può infatti avvenire con la rilevazione strumentale ed oggettiva della prestazione (tempo cronometrato, metri, distanza percorsa, ecc..) o tramite la valutazione inevitabilmente soggettiva di una giuria. Gli sport “leanness” possono quindi essere suddivisi a loro volta in “judged” e “non judged”.

La differenza è rilevante: negli sport “non judged”, o prestazionali, la magrezza viene ricercata come mezzo per ottenere una migliore resa sportiva (ad es. si può correre più a lungo, o essere più aerodinamici nei salti). Negli sport estetici, o judged sport, il corpo non è più solo un mezzo ma anche il fine della prestazione atletica, essi infatti sono incentrati sull’aspetto e sulle forme corporee, la grazia dei movimenti e su determinati requisiti fisici. Il corpo diventa dunque una parte inscindibile dalla performance.

A titolo esemplificativo, alcuni sport estetici sono: danza; ginnastica (ritmica e artistica); pattinaggio di figura e tuffi. Mentre alcuni degli sport prestazionali sono sport di resistenza (ciclismo, maratona), sci, nuoto, atletica leggera (salto in lungo, in alto, corsa).

Negli sport estetici viene enfatizzato il criterio di magrezza, ridotto peso, corpo esile e leggero, accompagnato inoltre da un costante monitoraggio del peso.

Non esiste tuttavia il solo criterio della magrezza ad elicitare una possibile problematica alimentare. Vi sono discipline sportive in cui avere un fisico possente e muscoloso viene valutato positivamente e può essere d’aiuto nel raggiungimento di determinate prestazioni. Sono divenuti quindi vulnerabili a disregolazioni alimentari anche i soggetti che praticano attività quali: body-building, atletica pesante e lotta.

  • CARATTERISTICHE DI PERSONALITA’

Lo sport, può rappresentare un fattore di rischio, quando interagisce con specifiche caratteristiche di personalità, come:

  1. Perfezionismo
  2. Bassa autostima
  3. Compiacenza alle richieste altrui
  4. Tratti ansiosi
  5. Strategie di regolazione emotiva disfunzionali

Queste caratteristiche possono permettere agli atleti di eccellere nella performance sportiva, e per questo motivo vengono spesso incoraggiate dagli allenatori, ma al contempo possono esporre al rischio di sviluppare disturbi alimentari.

A questi tratti si accompagnano altre caratteristiche come il timore del fallimento, la tendenza al forte impegno e un elevata competitività.

  1. Perfezionismo

È la tendenza a perseguire obbiettivi e standard elevanti e ad avere cura del dettaglio. Può essere adattivo, quando è una sana ricerca del miglioramento, del meglio di sé, dell’eccellenza e della soddisfazione per i risultati raggiunti. Diventa disattivo quando è permeato dalla paura del fallimento, dalla mancanza di soddisfazione per i risultati raggiunti, diventando un fattore di rischio per la motivazione, per l’autostima e per la performance stessa.

Questa caratteristica può divenire anche patologica, quando nell’individuo ci sono standard autoimposti, intensa paura dell’errore e del fallimento, eccessiva preoccupazione per il giudizio altrui, obiettivi perseguiti nonostante le significative conseguenze negative e regole comportamentali inflessibili, che non tengono conto delle circostanze esterne.

Le conseguenze negative di tratti perfezionistici estremi e patologici possono essere di natura: emozionale (con stati d’animo di ricorrente frustrazione o depressione), sociale (come per esempio una tendenza all’isolamento), fisiche (come per esempio insonnia), cognitive (come difficoltà a concentrarsi o a portare a termine i compiti a causa della tendenza a svolgerli perfettamente) e comportamentali (come ripetuti controlli del proprio operato, controllo ossessivo del peso o al contrario evitamento).

Spesso è presente una disfunzionale attenzione selettiva, ovvero una costante allerta per ciò che l’individuo ha sbagliato, concentrandosi poco o nulla su ciò che ha eseguito correttamente.

Avviene inoltre un’operazionalizzazione interna degli standard perfezionistici, sottoforma di regole, che diventano doverizzazioni, portando all’autocritica quando questi doveri non vengono rispettati.

È anche presente una ridefinizione degli standard personali, con condotte alimentari disfunzionali per adattare la propria forma agli standard fisici, con una costante valutazione negativa di sé stessi e del proprio corpo.

  • Bassa autostima

L’autostima viene definita come il giudizio della persona inerente al proprio valore.

Negli atleti può dipendere dal successo sportivo, che porta a fluttuazioni nei livelli di autostima; al proprio peso e alla forma del corpo.

Avere alti livelli di autostima può moderare gli effetti della pressione sociale e sportiva, che spinge gli atleti a conformarsi a una forma del corpo ideale.

Al contrario, bassi livelli di autostima, sono caratterizzati da una valutazione negativa di sé stessi che determina sentimenti di inadeguatezza. Sono associati a insoddisfazione corporea, e sono considerati predittori di comportamenti alimentari disfunzionali per raggiungere standard fisici desiderati (talvolta richiesti dalla disciplina sportiva praticata) e allo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare.

  • Compiacenza alle richieste altrui

Per riuscire a raggiungere standard elevati a livello sportivo si può avere la tendenza a compiacere le richieste dell’ambiente, che richiedono elevati livelli di magrezza e prestanza fisica, talvolta mettendo in atto comportamenti dannosi per la propria salute, come adottare condotte alimentari restrittive e poco equilibrate.

A questo proposito sarebbe importante riconoscere i pensieri disfunzionali (come per esempio il senso di doverizzazione, ovvero di dover assolutamente compiacere le richieste altrui) e imparare ad adottare strategie assertive, che permettono di esprimere in modo chiaro ed efficace le proprie opinioni ed emozioni.

  • Tratti ansiosi

In letteratura è stata segnalata una comorbidità molto frequente tra tratti ansiosi e disturbi alimentari, soprattutto in adolescenza.

Nelle persone con tratti ansiosi, spesso l’ansia non viene riconosciuta, accettata e utilizzata in modo efficace come spinta a migliorare la performance, viene invece vissuta come uno stato emotivo negativo al quale la persona fa fronte con strategie disfunzionali.

I tratti ansiosi sono spesso associati a preoccupazioni e ad una percezione negativa di se stessi e del proprio aspetto, che porta ad utilizzare il cibo come mezzo di controllo sul proprio corpo, adottando condotte restrittive. Spesso, infatti, l’ansia e i disturbi alimentari creano un quadro di sintomi che si rafforza a vicenda.

  • Strategie di regolazione emotiva disfunzionali

La regolazione delle emozioni rappresenta la consapevolezza, e il tentativo, di gestire ed esprimere gli stati emotivi. Si tratta di un processo di ricerca di equilibrio che modera l’intensità delle emozioni per poterle mantenere entro un livello tollerabile e gestibile.

Diverse evidenze suggeriscono che una regolazione disfunzionale delle emozioni rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di disturbi alimentari, e spesso comportamenti alimentari disfunzionali sono di per sé un tentativo di regolare gli stati emotivi negativi.

Ad esempio, livelli elevati di ansia e tristezza possono portare ad adottare strategie di regolazione delle emozioni disfunzionali come un’alimentazione non equilibrata (portando ad abbuffate o restrizione), nel tentativo di modificare ed esercitare un controllo sui propri stati emotivi, attraverso il rapporto con il cibo.

Soprattutto adolescenti e giovani adulti possono sperimentare una maggiore difficoltà ad adottare un’efficace regolazione delle emozioni.

Alcune strategie disadattive di gestione degli stati emotivi sono l’evitamento, la soppressione, la ruminazione e il rimuginio.

Evitamento

Molti degli autori che hanno esplorato i meccanismi di evitamento si sono concentrati sull’evitamento comportamentale (cioè di luoghi o situazioni).

Ma quando, ad esempio, una persona con ansia evita i luoghi in cui ha sperimentato stati emotivi negativi, tende anche internamente ad evitare l’ansia stessa. Ciò che davvero evita non è quel luogo ma la sensazione che sperimenta quando va in quel luogo.

Per evitare le emozioni spiacevoli una persona può evitare anche di parlare o pensare alle situazioni spiacevoli, e dunque perde il contatto i propri stati emotivi.

Rendere questo processo di evitamento consapevole è necessario per poterlo modificare, poiché senza un’elaborazione efficace e adattiva, i vissuti evitati tendono ad amplificarsi nel tempo, creando o mantenendo il disagio psicologico.

Soppressione e controllo

Quando una persona evita in modo intenzionale una emozione spiacevole si può parlare di meccanismi di soppressione e controllo.

Le persone con tendenza alla soppressione tendono a negare che certe esperienze le tocchino, anche se è evidente il contrario. Oppure dicono a sé stesse che non c’è ragione per sentirsi come si sentono cercando così sminuire, invalidare ed eliminare tali sensazioni.

Ruminazione

La ruminazione è una forma di iperfocalizzazione in cui la persona pensa in modo ricorrente e ripetivo alle proprie preoccupazioni, ai problemi e agli eventi passati che non possono essere modificati.

Alcune persone quando stanno male infatti si chiedono continuamente “Come posso stare così?” , “Cosa può essere successo?”.

Mettono in atto una modalità di pensiero negativo ripetitivo che ritorna continuamente, in modo sterile, intorno a cosa sta succedendo o a cosa è successo in passato.

Non c’è una reale comprensione o osservazione delle proprie emozioni, c’è una pressione per eliminare quegli stati emotivi senza che vengano elaborati.

Le emozioni negative non vengono accettate e la persona si chiede di continuare a funzionare come sempre; si colpevolizza di non riuscire a stare bene, i pensieri negativi verso di sé e il senso di colpa si amplificano, alimentando il malessere e facendo durare lo stato emotivo negativo più a lungo.

Rimuginio

Il rimuginio è la tendenza a preoccuparsi molto rispetto a ciò che di brutto potrebbe succedere in futuro.

La persona che rimugina quando percepisce incertezza, ansia o malessere inizia a preoccuparsi, ad immaginare quali potrebbero essere gli scenari futuri negativi, chiedendosi come potrebbe affrontarli. Ed è proprio attraverso il rimuginio che crede di poter trovare una soluzione o prepararsi al peggio, pensando di avere così il controllo, proteggersi, prepararsi, evitare che i propri timori si realizzino.

Il risultato del rimuginio è invece, come per la ruminazione, una spirale di pensieri e inevitabilmente emozioni ancora più negative e perduranti.

Dott. ssa Rebecca Rossi

Dott.ssa Laura Poggiato

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